Gestire la sicurezza dei lavoratori senza impazzire

Come viene gestita la sicurezza nei cantieri edili? Purtroppo si cerca di mettersi in regola per la normativa ma ci si dimentica di fare vera prevenzione.
Questo paradosso nasce dalle richieste del legislatore che per controllare meglio le imprese chiede più documentazione.
E questo si traduce per l’imprenditore in nuova burocrazia che va affrontata con spirito analitico e non con spirito critico.

Noi vogliamo parlare della vera prevenzione in cantiere per ridurre gli infortuni e gli incidenti. Per questo abbiamo scomodato uno dei più grandi esperti su queste tematiche per avere maggiori informazioni.

Abbiamo fatto alcune domande all’Ingegner Carmelo G. Catanoso.

Come mai, visto che almeno da 60 anni sono previste sanzioni penali per i contravventori e pesanti condanne in caso di gravi infortuni, siamo ancora lontani dai risultati ottenuti in altri Paesi?

L’Italia, per quanto riguarda le norme in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro (e non solo), è sicuramente un Paese particolare. 
Il nostro sistema prevenzionale è un sistema da manutenzione a guasto perché solo dopo che succede qualcosa di grave, si corre ai ripari.

Possiamo dire che siamo un Paese che, essenzialmente, legifera solo sotto due tipologie di spinte:

  • quelle che arrivano dalla UE sotto forma di regolamenti, direttive europee da recepire, ecc.;
  • quelle emozionali-emergenziali, all’accadere di gravi eventi.

Nei casi in cui si legifera sotto spinte emozionali – emergenziali il legislatore italiano dà, da anni, il meglio di sé. 
Infatti, quando avvengono tragici eventi in cui perdono la vita anche più lavoratori, l’attenzione a tali avvenimenti, da parte dei mass media, cresce in modo esponenziale con il conseguente impatto sulla pubblica opinione. 

I politici che, in genere, sanno poco o nulla di sicurezza sul lavoro ma sono, invece, molto attenti a cosa pensa la pubblica opinione, tendono a sfruttare la situazione, ai fini del mantenimento o incremento del consenso popolare. 

Ecco, quindi, che dopo uno di questi tragici eventi si assiste alla solita sequela di dichiarazioni del tipo:

  • <<Questi tragici fatti non devono più avvenire!>>
  • << Siamo un Paese leader in Europa e quindi non è accettabile che in Italia avvengano episodi del genere!>>
  • << Ci vogliono maggiori controlli!>>
  • << Ci vogliono nuove leggi perché quelle che abbiano non sono adeguate!>>.

La presunta inadeguatezza delle leggi esistenti, essendo la scelta più facile, porta sempre i politici a spingere verso l’emanazione di nuove leggi proponendole come la soluzione ai problemi esistenti. 
A questo punto la palla passa sul campo degli organi tecnici istituzionali attivati dai politici ai fini dell ricerca della soluzione.

E qui cominciano i problemi veri. 
Quando si legifera sotto spinte emozionali ed emergenziali, la conseguenza è che il prodotto non è mai granché per almeno un paio di motivi:

  • si è costretti a lavorare di fretta, dopo i fatti gravi avvenuti, sotto la pressione politica, per dare una risposta all’opinione pubblica;
  • non c’è l’abitudine di coinvolgere, al tavolo dove si scrivono le norme, anche gli attori che già operano nel settore che si vuole normare e che, quindi, hanno conoscenza approfondita dal di dentro delle dinamiche organizzative, produttive e relazionali specifiche.

E quando si parla di attori che operano sul campo, non ci si riferisce ai politici della rappresentanza inviati ai tavoli di discussione da associazioni datoriali, sindacali, professionali, ecc., ma si parla di soggetti indipendenti in possesso di provate competenze specifiche, selezionati in modo trasparente nel mondo del lavoro.

Invece capita, molto più spesso di quanto si possa pensare, che gli organi tecnici delegati a scrivere le nuove regole, raramente abbiano tra le loro fila soggetti in possesso di una conoscenza approfondita della specifica tematica da normare o ri-normare. 
Guardando quello che è successo in un recente passato, sembra quasi che questi organi tecnici pensino di essere considerati gli unici detentori del sapere sullo specifico argomento visto che i politici hanno loro conferito l’incarico di normare. 

Sotto, sotto, però, sono anche consci di non conoscere adeguatamente la specifica tematica e che, pertanto, essendo loro gli esperti, ciò significhi che in Italia nessuno conosca l’argomento e che nessuno, prima di loro, si sia posto il problema per trovare una soluzione. 

Il problema, però, è che non conoscendo approfonditamente la tematica, si ritrovano, più o meno consciamente, a scrivere nuove regole che, in concreto, non sono altro che nuovi adempimenti formali, spesso non chiari e mal scritti e quindi aperti alle varie interpretazioni, con la conseguenza più che ovvia di produrre  solo un aumento del carico burocratico senza alcuna concreta ricaduta sul livello di sicurezza e tutela della salute e fornendo così l’ennesimo alibi per continuare a non far nulla a coloro che nulla hanno mai fatto per la tutela della salute  della sicurezza sul lavoro. 

Poi, come diceva un notissimo politico, da qualche anno non più fra noi, <<a pensar male si fa peccato ma certe volte ci si azzecca>>; infatti, si potrebbe anche pensare che la vaghezza dei contenuti delle nuove regole sia stata creata ad arte per non far capire che, coloro che le hanno scritte, sotto sotto, non conoscevano adeguatamente la tematica sui cui sono intervenuti.

Comunque, il prodotto confezionato va avanti, si fanno le modifiche, limature, ecc., viene approvato e diventa norma. 
Però, ciò che scaturisce da questa prassi legislativa, è un prodotto frutto di una visione particolare quasi sempre incompleta che, non abbracciando il problema nella sua complessità, presenta soluzioni di difficile applicabilità, non condivise dagli attori che saranno chiamati ad applicarle sul campo, spesso controverse e, quindi, aperte alle più variegate interpretazioni.

A questo punto, chi opera sul campo, visto il clamore ed il livello di attenzione suscitato dalla nuova norma, sapientemente mantenuto alto da chi ne ha fatto uno specifico business nel settore, tende a prediligere le interpretazioni più integral-talebane, aumentando la burocratizzazione delle regole, credendo così di preservarsi da eventuali azioni giudiziarie in caso di visite ispettive o, peggio, in caso di gravi eventi infortunistici. 

Del resto, più che domandarci quanta gente muore per la non sicurezza, dovremmo domandarci anche quanta gente ci campa e tra questa ci potremmo sicuramente mettere i tanti profeti dell’integralismo repressivo che pensano ancora oggi che aumentando le pene e i controlli si crei un effetto deterrente in grado di arginare e ridurre il fenomeno.

Qual è l’andamento degli infortuni sul lavoro nel settore dell’edilizia?

Secondo i dati diffusi dall’INAIL, gli infortuni nel settore delle Costruzioni sono in aumento.
Nel primo trimestre 2019 sono state 157.715 (+1,9% rispetto allo stesso periodo del 2018), 212 delle quali con esito mortale (dato invariato rispetto al primo trimestre dell’anno scorso).

Si tratta, però, di valori di dati in valore assoluto; per avere una indicazione sull’andamento effettivo del trend, si dovrebbero “pesare” sulle ore effettivamente lavorate (e non le ore retribuite) o quantomeno sul numero di occupati (Indice di Incidenza). Dati però che non sono disponibili. 

Quali sono i ruoli delle persone che devono essere coinvolte nel sistema di prevenzione e protezione?

La concezione della sicurezza sul lavoro in Italia è bloccata in un’ottica normo-tecnica e ciò contribuisce a far percepire le attività che si pongono come obiettivo la tutela dell’integrità psicofisica del personale come un insieme di norme e procedure tecniche che non produce alcun valore aggiunto.
Oggi si continua a pensare che la sicurezza sul lavoro debba essere garantita solo dal datore di lavoro avvalendosi di specialisti in materia. 

Nulla di più errato.

Il datore di lavoro ha sì il ruolo e la responsabilità di costruire un’organizzazione prevenzionale efficace ed efficiente, definendo ruoli e funzioni dei propri riporti e rendendo fruibili le risorse umane e materiali necessarie a tal fine ma ciascuna delle figure presenti nella gerarchia aziendale, ivi compresi i lavoratori alla base della piramide gerarchica, deve attuare quanto di sua competenza. In caso contrario, nessuna organizzazione prevenzionale sarà in grado di garantire il raggiungimento degli obiettivi di tutela dell’integrità psicofisica del personale.

È sempre colpa del datore di lavoro in caso di infortunio?  

La risposta è no.
Negli ultimi anni sia la Giurisprudenza Penale di Merito che la Cassazione Penale hanno iniziato a vedere la sicurezza sul lavoro come un obiettivo che, per essere raggiunto e mantenuto, deve vedere l’impegno e il rispetto delle “regole” (normative, tecniche e procedurali) non del solo datore di lavoro ma anche delle altre figure che il legislatore ha individuato e cioè dirigenti, preposti e gli stessi lavoratori.
Pertanto, quando si ricercano eventuali profili di colpa in seguito ad un grave infortunio, adesso si va a vedere se il datore di lavoro abbia costruito o meno la citata organizzazione prevenzionale efficace ed efficiente (definendo ruoli, responsabilità, risorse, ecc.).
Nel caso in cui il datore di lavoro abbia fatto quanto sopra predisponendo, ad esempio, un efficace sistema di deleghe verso uno o più dirigenti e attribuendo specifiche dazioni d’incarico ai preposti (capicantiere, assistenti, capisquadra/turno), le responsabilità di un eventuale infortunio legato, ad esempio, al mancato uso di un DPI da parte di un lavoratore informato, addestrato e formato al suo uso, non potranno essere addebitate al datore di lavoro ma andranno ricercate tra le figure che a lui riportano (ad esempio, il preposto), giungendo, in alcuni casi, ad individuare una co-responsabilità dello stesso lavoratore.
Questo perché il lavoratore, pur avendo in dotazione i DPI ed essendo informato, addestrato e formato al loro uso, oltre a non essere stato oggetto di vigilanza da parte del proprio preposto per l’uso degli stessi, ha volontariamente non rispettato le direttive aziendali. 

La formazione rimane uno strumento necessario per la prevenzione e quali metodi è possibile implementare per garantire la corretta ed efficace formazione al lavoratore? 

La formazione è uno strumento necessario nella misura in cui essa è intesa come un cambiamento che opera a tre livelli 

  • a livello delle conoscenze, per modificare la struttura conoscitiva delle nozioni che l’individuo possiede;
  • a livello delle capacità, per cercare di attivare e migliorare le capacità di agire e/o svilupparne delle altre;
  • a livello dei comportamenti, con lo scopo di creare nell’individuo degli atteggiamenti favorevoli agli obiettivi del processo formativo. 

L’immagine della formazione alla sicurezza sul lavoro deve essere quella di un processo che consente alle persone interessate di diventare più preparate nello svolgere un’attività non solo limitatamente a una maggiore conoscenza ed abilità, ma, soprattutto, grazie all’acquisizione di una maggiore consapevolezza del proprio ruolo e del proprio comportamento, connessi all’espletamento della propria attività lavorativa.

La formazione alla sicurezza, invece, ha operato, fino ad oggi, solo sul piano delle conoscenze e delle capacità, mirando ad accrescere il bagaglio culturale degli addetti e a sviluppare le capacità dei soggetti in formazione. 
Oggi, dunque, si insegna a sapere ed a saper fare più che a saper essere. 

Il compito della formazione alla sicurezza, invece, deve essere quello di comunicare, oltre al sapere ed al saper fare, anche il saper essere e ciò perché, il modo di comportarsi di un individuo, in una determinata situazione, è funzione di quella che è la sua conoscenza esperenziale, cioè quelle regole di comportamento scoperte con l’esperienza a prescindere da modelli o soluzioni fornite a tavolino.

Pertanto, è un’ipotesi perlomeno semplicistica pensare di dare per scontato che, l’acquisizione di nuove conoscenze e di nuovi modelli di percezione del problema sicurezza, forniti nella maggioranza dei corsi, possano, dopo aver creato dei cambiamenti nella sfera motivazionale degli individui, essere mantenuti al di fuori del momento formativo e trasferiti nella normale situazione lavorativa, producendo poi una serie di cambiamenti nei comportamenti degli altri individui della stessa impresa.

Per fare, efficacemente, un’attività di formazione alla sicurezza, bisogna abbandonare i vecchi schemi di riferimento e basarsi su presupposti e metodologie, ben diverse da quelle che il sistema formativo per la sicurezza sul lavoro ha offerto e tuttora offre.

Quest’attività deve porre al centro dell’attenzione le esperienze quotidiane di lavoro, in particolare, per quel che concerne i vissuti e le valutazioni del rischio e della prevenzione così come sono state maturate all’interno della struttura organizzativa (azienda) di appartenenza. 

L’obiettivo principale del processo formativo deve essere quello di far emergere, dagli appartenenti alla stessa azienda (e non provenienti da diverse aziende e quindi realtà organizzative differenti come avviene nella maggior parte dei corsi offerti), tutte le conoscenze necessarie per individuare e valutare i rischi presenti nella attività lavorativa e, soprattutto, i comportamenti più opportuni per eliminarli e/o controllarli, integrando, quando occorre, le conoscenze mancanti, carenti o distorte.

Indubbiamente, si tratta di attività complesse che, viste le dimensioni medie delle imprese di costruzioni, non possono essere affrontate singolarmente. Pertanto, sarebbe auspicabile un supporto tecnico-organizzativo da parte degli Organismi paritetici del settore.

In un futuro prossimo, un salto evolutivo lo potremo fare con la diffusione di prodotti che coinvolgano attivamente le persone. Intendo parlare di prodotti molto simili ai giochi che “girano” su Play Station, Xbox e simili e cioè un qualcosa che coinvolga attivamente presentando situazioni tipiche dei cantieri in cui deve essere presa una decisione, adottato un comportamento, ecc. 

Sappiamo tutti che sperimentando s’impara ……. ma si può imparare anche tramite simulazioni ben fatte. 

Cosa fare per il miglioramento della situazione?

Innanzitutto, va premesso che la sicurezza sul lavoro è un problema che:

  • non potrà mai essere risolto in modo definitivo ma che può e deve, comunque, essere contenuto e controllato attraverso l’attuazione di un’adeguata strategia che deve vedere coinvolti tutti gli attori nella definizione delle regole da applicare;
  • comprende diverse variabili (giuridiche, tecniche, economiche, organizzative, ecc.) e, quindi, qualunque tipo d’intervento non può assolutamente trascurare nessuna di queste componenti, pena l’inefficacia dell’intervento stesso;
  • non permette l’applicazione di modelli prefabbricati buoni per ogni occasione ma si deve sempre tenere conto delle specificità di ogni settore industriale compresa la relativa filiera.

Pertanto, un vero e duraturo cambiamento dell’attuale situazione lo potremo avere in futuro abbandonando:

  • l’italica prassi della legislazione d’emergenza che si sovrappone alle già esistenti norme vigenti creando solo confusione,
  • l’idea del solo incremento del controllo e dell’inasprimento delle sanzioni,

ma creando, invece, un sistema che dimostri che l’investimento per la sicurezza e la tutela della salute oltre ad essere eticamente riconosciuto ed apprezzato dalla pubblica opinione, produce un ritorno economico tangibile in quanto: 

  • permette all’impresa l’accesso e la permanenza sul mercato dove esiste un sistema di controllo efficiente ed efficace da parte degli enti preposti, 
  • costituisce un vantaggio competitivo rispetto ad altre aziende dello stesso settore,
  • permette la riduzione dei costi indiretti (assenteismo, turnover, ecc.), 
  • aumenta l’efficienza dei processi lavorativi, 
  • fa accedere ad agevolazioni fiscali e contributive, 
  • migliora l’immagine aziendale e 
  • riduce la conflittualità interna ed esterna.


Tra ripensamenti e tradimenti

È la storia più vecchia del mondo.
A Lui piace Lei. Ore di corteggiamento, sembra fatta, accetta di venire a cena.
Lui è al settimo cielo, si prepara di tutto punto, ma mezz’ora prima dell’appuntamento un messaggio. “Mi spiace ho deciso di uscire con Giorgio”.
Frustrazione, rabbia e delusione.

Ora proviamo a trasportare la stessa dinamica nel mondo del lavoro.
Ore e ore per selezionare un pugno di CV.
Tempo dedicato alle interviste cercando di scovare il candidato/a giusto, anzi, il candidato/a perfetto/a.
E alla fine eccolo/a. E’ lui/lei. Non hai dubbi.
Il colloquio con l’azienda va alla grande, anche loro si innamorano.
Inizia la parte più delicata.
Si tratta su retribuzione, livello, ruolo. Ma alla fine si trova una quadra.
Si firma la lettera di intenti. Ormai mancano solo pochi giorni è il candidato/a inizierà una nuova esperienza di lavoro.
Grazie al tuo impegno e alla tua dedizione.
Tutti felici?
No.
Perchè arriva il rilancio o un altra offerta, e il candidato/a ci ripensa.
Si è vero, ha firmato la lettera di intenti, ma è più un vincolo per l’azienda che per lui.
E quindi cosa importa, si rimangia la parola, e pure la firma. Il mondo del lavoro non è un ambiente romantico. Non contano più le strette di mano, le parole date e nemmeno le firme.
Ci siamo incattiviti. Siamo diventati tutti cinici e attenti al nostro tornaconto nel brevissimo periodo.
Un circolo vizioso che complica la vita a tutti.
Un circolo che ad ogni giro diventa più veloce, più ruvido, più cattivo.
Tutti sono pronti a fregare tutti. I vecchi valori di qualche anno fa sono andati perduti.
E così ci si attrezza sempre al peggio. E chi ne fa le spese sono sempre gli ingenui, i puri, le brave persone.
Il problema del mondo del lavoro è la perdita della visione umana.
Se si perdono i valori cosa rimane?