Il boom dei lavori “ibridi”

Il boom dei lavori “ibridi”

È sempre più forte la ricerca di lavori “ibridi”, cioè quei ruoli che combinano competenze che non si trovano mai in un solo mestiere. Lo racconta una ricerca che offre anche alcuni spunti per mantenersi appetibili in un mercato in continuo cambiamento.

Nei prossimi 10 anni crescerà enormemente la ricerca di lavoratori con combinazioni di competenze diverse, a volte apparentemente opposte. Lo dimostra una ricerca che mette in risalto il ruolo della contaminazione nel mondo del lavoro.
Il rapporto di Burning Glass Technologies ha messo in luce un fenomeno nuovo e per certi versi prevedibile nell’era delle tecnologie digitali. Le offerte di lavoro stanno diventando sempre più “ibride”, più complesse e richiedono nuove importanti competenze che sono spesso relative a più figure professionali.
La ricerca mostra che i nuovi lavori così ricercati sono più complessi, multi-disciplinari e richiedono un’ampia gamma di competenze in diversi campi. In altre parole, sono lavori altamente specialistici e quindi godono di un’alta retribuzione. La ricerca di figure professionali con un intreccio così sofisticato di competenze è quindi sempre maggiore. E come risultato di ciò questi mestieri sono in rapido aumento di valore. La loro richiesta sul mercato sta infatti crescendo al doppio del tasso di crescita del lavoro complessivo, come anche lo stipendio medio, che è del 20-40% maggiore rispetto ai loro omologhi più tradizionali.

Esperienza, competenza e retribuzione
Il fenomeno messo in evidenza da questa ricerca riguarda tutte le industries, nessuna esclusa, e sta entrando in ogni settore di attività, specialmente in quelle che presentano un ricorso maggiore alle nuove tecnologie. E se il premio salariale medio è maggiore, è naturale che questi mestieri ibridi attirino un numero sempre maggiore di lavoratori.
Il tema dell’apprendimento continuo è quindi il dato più importante emerso da questo studio. Solo chi continua ad affinare le proprie competenze avrà la possibilità di raggiungere ruoli importanti e aumentare di conseguenza la propria retribuzione.
La ricerca ha rilevato infatti che solo il 16% dei lavori ibridi ad alto valore sono relativi a un livello lavorativo di base. Segno che certe abilità si acquisiscono soltanto attraverso diversi anni di esperienza e di sviluppo personale. E chi non si mette al passo con l’innovazione probabilmente resterà al palo.
L’apprendimento continuo, sembra suggerire la ricerca, deve quindi venire a far parte del normale ambiente di lavoro. Solo così è possibile diventare più “ibridi” e abili a comprendere le ricadute della nostra attività sugli altri ambiti professionali.

Il ruolo delle nuove tecnologie
Sono milioni i posti di lavoro che saranno creati o distrutti dai cambiamenti tecnologici nel prossimo decennio. Eppure già oggi questa tendenza è profonda e anche piuttosto sottovalutata. Nel mercato del lavoro odierno la tecnologia sta trasformando i mestieri in nuove forme inaspettate, combinando insiemi di competenze che non si trovavano mai nello stesso lavoro.
In tutto questo c’è un’opportunità e un’insidia al tempo stesso. Alcuni lavoratori possono guadagnare terreno rispetto ad altri, e il futuro sarà di chi saprà rimodellare le proprie competenze in funzione dei cambiamenti del mercato del lavoro.
Le nuove tecnologie creano nuove pratiche e abilità, non solo tra i lavoratori. La sfida riguarda anche i datori di lavoro. Chi riuscirà a riqualificare i lavoratori esistenti, indipendentemente dalla loro età, potrà sviluppare una fucina di talenti sempre più efficace e a minor costo. E riuscirà ad acquisire nuove competenze in anticipo rispetto al mercato, con enormi benefici in termini di competitività.
La ricerca mostra chiaramente la strada giusta alle aziende, che non possono più dormire sugli allori senza pensare all’importanza di una formazione continua. Anche in partenariato con gli istituti di formazione.
Naturalmente questo presuppone che i datori di lavoro abbiano una consapevolezza o quantomeno un sentore di questo bisogno formativo e di come i loro bisogni possano cambiare nel tempo. E lo studio di Burning Glass Technologies invita a riflettere sul fatto che non poche aziende sono state colte di sorpresa da repentini cambiamenti del mercato.
Affinché le imprese possano riqualificare i propri lavoratori in modo efficiente e utilizzare in modo più efficace i talenti, devono essere in grado di identificare sia le competenze già possedute dai lavoratori sia quelle di cui avranno bisogno in futuro.

I consigli del recruiter
Un dato interessante della ricerca riguarda la durata media della ricerca dei mestieri “ibridi” sul mercato del lavoro. Molti ruoli multi-disciplinari rimangono scoperti più a lungo rispetto alla media del mercato, segno evidente dell’assenza di queste figure sul mercato (e quindi del loro valore!). I lavoratori hanno bisogno della stessa cosa dei datori di lavoro: una visione di come sta cambiando il mercato del lavoro e alcuni buoni consigli su come migliorare le loro competenze e progredire nella carriera.
Purtroppo, mentre i lavoratori sono spesso incoraggiati a ricevere una formazione supplementare, di solito sono lasciati a loro stessi nel decidere quale formazione dovranno scegliere. Se dovessimo dare qualche suggerimento ai lavoratori e ai datori di lavoro, diremmo di concentrarsi sulle competenze chiave necessarie per avere successo in un mercato in rapido mutamento, come è oggi quello delle costruzioni. E ricordarsi sempre che quelli che oggi noi chiamiamo “ruoli ibridi”, in futuro saranno ruoli normali, ovvi, in cui saranno unite in maniera ordinaria alcune competenze che oggi sembrano anche molto lontane tra loro.

Quando il coordinatore della sicurezza in cantiere è donna

Quando il coordinatore della sicurezza in cantiere è donna

Il coordinatore per la sicurezza nei cantieri ha il compito di garantire il coordinamento tra le imprese impegnate nei lavori, ai fini dell’abbattimento dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori. Non è insolito che questo ruolo sia ricoperto da donne che entrano in cantiere con un approccio diverso e innovativo.

Figura chiave all’interno del cantiere è quella del coordinatore della sicurezza. Si tratta di una professionalità prevista espressamente dalla legge (D.Lgs. 81/08) che serve a gestire e monitorare l’andamento di quei cantieri in cui sono coinvolti più appalti (cioè più imprese esecutrici) e più tipologie di lavori. È un ruolo certamente difficile perché si colloca a metà strada tra la posizione del committente e quella del progettista, e richiede conoscenze sempre più specifiche non solo delle tecniche costruttive, ma anche dell’evoluzione normativa.
I compiti del coordinatore iniziano con la fase di progettazione e la relativa redazione del piano di sicurezza, per arrivare poi al coordinamento della sicurezza della vera e propria esecuzione da parte di tutte le imprese e dei lavoratori autonomi che partecipano al cantiere.
Dunque la figura del Coordinatore per la sicurezza oggi si sdoppia in due distinte funzioni (quella legata alla progettazione e quella legata all’esecuzione, appunto), ed è per questo che talvolta sono presenti due professionisti diversi.

Le donne entrano in cantiere
Organizzare e controllare il corretto svolgimento dei lavori per la salute dell’intero cantiere è qualcosa di articolato, qualcosa per cui è necessaria non solo una pluriennale formazione accademica e professionale, ma anche una certa attitudine e inclinazione. Un compito che, soprattutto negli ultimi anni, è sempre più spesso affidato alle donne. Che entrano in cantiere con un ruolo complesso e con un minore coinvolgimento nel machismo tipico di molti lavoratori uomini. Il che le rende professioniste più ligie e, in definitiva, più attente a prevenire i rischi associati all’errato svolgimento delle mansioni.
Su questo tema l’Associazione Italiana Formatori e Operatori della Sicurezza sul Lavoro (AiFOS) e il Comitato Donne AiFOS SOFiA hanno organizzato, l’8 marzo scorso a Brescia, un convegno dal titolo “Cantiere Donna”. L’obiettivo era portare alla luce i plus della presenza delle donne in cantiere, soprattutto in riferimento alle loro capacità di mantenere i ritmi produttivi, di risolvere gli imprevisti derivanti dai problemi di progettazione, di confrontarsi idoneamente con utenti, aziende e direzione, di adottare comportamenti sicuri.

Ma le donne faticano ancora
L’incontro, tuttavia, ha evidenziato anche parecchie criticità relative della presenza femminile in cantiere. Una su tutte riguarda l’avere a che fare, spesso, con una mentalità maschilista: all’interno di un cantiere le donne sono per lo più geometri, architetti o ingegneri chiamati a dirigere maestranze maschili.
Ebbene, per molti uomini non è facile ascoltare quello che dice una donna, magari giovane e con poca esperienza. Tanto più se questa giovane donna coordina la sicurezza che, per la cultura “maschia” di cui sopra, viene percepita come una perdita di tempo e un rallentamento del lavoro.
Prendere ordini da una donna, poi, è difficile per uomini che provengono da culture in cui il ruolo femminile è relegato a un ambito fondamentalmente domestico. Questo problema sembrerebbe oggi poco diffuso o superato e invece, purtroppo, non lo è affatto. Il convegno “Cantiere Donna” ha fatto emergere in questo senso una considerazione importante: la popolazione lavorativa del cantiere è spesso composta anche da operai stranieri che dimostrano di avere, in alcuni situazioni, qualche difficoltà ad accettare che una donna possa svolgere un lavoro maschile.
Oltre a quello culturale, c’è anche l’inevitabile ostacolo generazionale, anche se la situazione migliora in presenza di interlocutori giovani, probabilmente perché cresciuti nell’ottica della parità di genere e della sicurezza cui attualmente è rivolta una grande attenzione.

Opportunità e vantaggi
Bisogna in ogni caso sottolineare che il committente dei lavori, sia esso pubblico o privato, assegna l’incarico di coordinatore della sicurezza in base alle esperienze presenti sul curriculum vitae, e non certo in base al sesso. Inoltre la crisi economica che ha interessato tutti i settori professionali, in Italia si è accanita in particolar modo su quello edile. E proprio da questo frangente sono nate nuove opportunità: non solo sono stati messi in discussione vecchi paradigmi e modelli organizzativi, ma sono state sperimentate formule nuove e tentate strade ancora poco battute, partendo proprio dall’inserimento nel mondo del cantiere di figure femminili fortemente motivate. A dimostrazione di ciò, geoJOB ha recentemente concluso alcune selezioni per un’importante società di consulenza di Milano che ha voluto inserire nei suoi progetti edificativi due professioniste con provata esperienza sul campo. Consideriamo questo un segnale importante di un cambiamento culturale che, seppure lento, sta interessando un settore da sempre considerato un presidio maschile.
Come abbiamo detto, quello del coordinatore della sicurezza è un ruolo complesso basato non solo su nozioni accademiche e preparazione tecnica, ma anche su doti fondamentali come la capacità di osservare, di comunicare, di rapportarsi e collaborare con gli altri. Tutte abilità che possono avere sia uomini che donne. In fin dei conti quello che rileva è la competenza e la professionalità della persona che deve farsi conoscere per il suo modo di operare. Anzi, il fatto che talvolta una donna coordinatrice non piaccia alle maestranze o, meglio, non colluda troppo con esse, è proprio ciò che crea fiducia con la committenza.

L’importanza dei Dispositivi di Protezione Individuale

L’importanza dei Dispositivi di Protezione Individuale


I DPI sono fondamentali in cantiere e in tutti i ruoli lavorativi sensibili. Ma spesso la sottovalutazione del problema sicurezza ne scoraggia l’utilizzo. Ecco i motivi per cui non vengono utilizzati in maniera corretta.

L’inosservanza delle norme di sicurezza, anche delle più comuni, è la principale causa dell’altissimo numero di incidenti sul lavoro. Un costo umano ormai inaccettabile, soprattutto nel settore edile dove potrebbe essere in larga misura evitabile.
Il problema sembra però di difficile soluzione, soprattutto per l’assenza di una vera e propria “cultura” della sicurezza. Un modo di pensare e di agire che dovrebbe diventare parte integrante della cultura aziendale e avere come primo estensore il datore di lavoro. È infatti dall’esempio del capo e dalla sua efficace sorveglianza che discendono a cascata, al di là della legge e delle norme, le pratiche condivise.

La percezione del rischio
Sono moltissime le ricerche che hanno messo in luce in questi anni come la maggior parte dei lavoratori consideri bassa o del tutto assente la possibilità di incorrere in un infortunio. In moltissimi casi inoltre, pur svolgendo mansioni in cui viene richiesto l’uso di dispositivi di protezione individuale, questi non vengono utilizzati per una bizzarra sottovalutazione del rischio.
È proprio su questo aspetto che il lavoro da svolgere è maggiore, a causa della persistenza di atteggiamenti manchevoli e dannosi. Forme di arretratezza che però possono essere sconfitte o trasformate sfruttando la forza dell’informazione.
È provato infatti che l’uso corretto e continuativo dei dispositivi di protezione individuale è influenzato dall’aver ricevuto informazioni corrette a essi correlate. La consapevolezza dei rischi reali a cui si può andare incontro, con il dettaglio anche agghiacciante delle conseguenze di un uso improprio dei Dpi, ha un effetto estremamente positivo. Il lavoratore che ha preso visione in maniera chiara e documentata degli esiti drammatici della “non sicurezza” si convince immediatamente dell’importanza della prevenzione e si responsabilizza.

Machismo, individualismo, menefreghismo & Co.
Purtroppo esistono molte sacche culturali, che sarebbe meglio chiamare sottoculture, che fanno ancora resistenza alla piena condivisione delle pratiche di sicurezza sui luoghi di lavoro. Se infatti è vero che la percezione del rischio è influenzata positivamente da una corretta informazione, è altrettanto vero che molti comportamenti sbagliati attingono a piene mani da modi di concepire le relazioni tra uomini che sono antichi, intrisi di atteggiamenti narcisistici e presuntuosi, quando non si tratta di vere e proprie pose.
Stiamo parlando di quelle condotte sui luoghi di lavoro che si nutrono di machismo e di confronto tra lavoratori basato sulla prestanza fisica e sulla noncuranza del pericolo. Si tratta di comportamenti molto più frequenti di quanto si possa immaginare e che purtroppo le statistiche non riescono a registrare. Specie in ambienti di lavoro, come il cantiere, in cui la forza fisica e il vigore atletico rappresentano una sorta di simbolo di status tra lavoratori.
L’assenza di imbragatura o il rifiuto del caschetto vengono spesso vissuti come gare di coraggio o di determinazione in cui occorre dimostrare sempre e a ogni costo di essere forti e sprezzanti del pericolo, pena l’accusa di mancanza di virilità.
A questa forma di machismo si lega inoltre un altro pericolo che presenta due modalità distinte ma pur sempre facce della stessa medaglia: l’individualismo e l’intolleranza alle regole. Il primo è un comportamento molto antipatico che rema contro le norme di base della sicurezza, che sono sempre un gioco di squadra e che devono coinvolgere tutti, nessuno escluso. Il secondo è un atteggiamento oltremodo pericoloso, oltreché deplorevole, perché rappresenta un vero e proprio attentato volontario alla sicurezza comune. Oltre a vanificare lo sforzo di tutti, mette infatti in pericolo l’intera organizzazione e va dunque severamente sanzionato.

Corresponsabilità: il ruolo primario della formazione
Aleggia su tutti questi atteggiamenti un tentativo di sottrarsi alle regole condivise basandosi invece sulle proprie sensazioni del momento. Come se il lavoratore stesse interpretando il ruolo di un eroe in un film. La realtà è però molto diversa dalla fiction, e l’immaginazione del lavoratore non è mai così fervida da poter prevedere gli esiti più nefasti di questi comportamenti. Esiti che spesso sorprendono in negativo.
Arriviamo così al punto chiave di tutto il ragionamento: la buona informazione e soprattutto la formazione possono fare molto sul piano della prevenzione e sull’uso dei dispositivi di sicurezza proprio perché disvelano tutti gli addentellati e le ricadute possibili di queste pratiche errate.
La legge stabilisce che cosa sono i Dispositivi di Protezione Individuale e prescrive (D.Lgs. 81/08) che il datore di lavoro fornisca ai lavoratori i necessari Dpi, assicurandogli anche un’adeguata formazione circa il loro uso corretto. Senza entrare nel merito delle tecnicalità e delle altre normative relative alla sicurezza, che sono comunque numerose, rimane fondamentale riuscire a far introiettare e condividere storie, valori e comportamenti virtuosi, permettendo al lavoratore di diventare un soggetto attivo e protagonista del sistema di prevenzione e protezione.
Secondo noi di geoJOB il tema guida di ogni percorso formativo in ambito Dpi deve essere quindi quello della “corresponsabilità”, vale a dire la capacità di rendere i lavoratori attori responsabili e informati rispetto a tutte le ricadute possibili di una mancata prevenzione, soprattutto quelle che riguardano gli altri compagni di lavoro. L’obiettivo è la tenuta generale del sistema sicurezza in azienda.
Il controllo reciproco delle più banali norme di prevenzione tra lavoratori deve diventare la base culturale da cui far discendere poi i comportamenti condivisi. Svilendo e mortificando i comportamenti narcisistici e individualistici, così deleteri per la cultura di un’organizzazione.

Gli alti costi della “non sicurezza”

Gli alti costi della “non sicurezza”

Un mix di fatalismo ed errato calcolo probabilistico inducono gli imprenditori ad abbassare la guardia sulla sicurezza in cantiere. Eppure i vantaggi della prevenzione sono moltissimi ed economicamente interessanti. Vediamoli insieme.

Sembra che gli imprenditori siano oggi molto più sensibili ai costi della sicurezza che a quelli della “non sicurezza” mostrando una certa noncuranza per le sanzioni e le responsabilità penali degli infortuni sul lavoro. Eppure i costi nascosti delle pratiche illegali sono molto superiori rispetto ai vantaggi acquisiti nel tempo, e la tendenza a comprimere il budget della salute e della sicurezza alla lunga non paga affatto.
I dati parlano chiaro. Un’importante ricerca dell’International Social Security Association di qualche tempo fa ha messo in luce come oltre al cosiddetto Roi, cioè il valore del Ritorno degli Investimenti, esiste anche il Ritorno della Prevenzione (Rop) che permette di calcolare il rapporto tra i costi sostenuti da un’azienda in profilassi e prevenzione e i benefici economici quantificabili nel tempo.
Ebbene, a livello globale Issa stima un Return on Prevention medio pari a 2,2, vale a dire che per ogni euro investito in sicurezza si determina un beneficio quantificabile in 2,2 euro per l’azienda. Non solo: per alcune voci di costo il guadagno è ancora più sensibile: ad esempio il Rop della formazione arriva a 4,5 euro medi per ogni euro speso, mentre i check-up sanitari raggiungono addirittura il Rop di 7,6 euro.

Un problema culturale
I dati Issa sono molto significativi e convincenti, eppure le aziende non conoscono ancora questi riflessi positivi, e non li possono quindi apprezzare. Questo problema è di tipo culturale e interessa soprattutto le piccole e medie imprese, che rappresentano oltre il 90% del totale e che presentano un insieme di variabili che non facilitano l’adozione corretta e continuativa delle pratiche di messa in sicurezza.
Le ragioni sono molte. Elenchiamo le più comuni, cominciando dalla prima, la più rilevante: Il datore di lavoro che porta due cappelli. Oltre a fare l’imprenditore, egli svolge spesso anche la funzione di RSPP, cioè Responsabile del servizio di prevenzione e protezione. In questo doppio ruolo il datore di lavoro non si spende completamente nella prevenzione perché è coinvolto in prima persona come imprenditore e, complice la crisi e le spese generali di gestione, si limita a esercitare un’attività di controllo delle attrezzature e di richiamo dei dipendenti laddove è strettamente necessario. L’unica sua preoccupazione è quella di scongiurare l’intervento degli organi di vigilanza. Per tutte le altre attività relative alla sicurezza, si affida a società esterne.

Fatalismo e bassa percezione del pericolo
Altro fattore che non predispone la piccola e media impresa verso la prevenzione è la scarsa percezione del pericolo. Nelle Pmi vi è infatti, statisticamente, una bassa frequenza di infortunio. Ciò comporta una sottovalutazione continua del potenziale esborso economico dell’evento infortunistico. Che, quando capita, compromette profondamente la salute di un’azienda. È questo un punto cardine su cui batte da tempo l’European Agency for Safety and Health at Work, che ha messo in luce quanto sia difficile per le piccole aziende rimettersi in piedi dopo un grave incidente sul lavoro.
L’agenzia intergovernativa sottolinea infatti che per una piccola e media impresa è oltremodo complicato e oneroso rimpiazzare lavoratori chiave per il proprio business. Sospensioni anche brevi dell’attività comportano inoltre una forte perdita di clienti e di commesse, mentre piccolissimi incidenti o banali malattie professionali possono produrre un raddoppio del tasso di assenteismo. Senza parlare poi degli infortuni gravi, che sono in grado di determinare l’interruzione definitiva dell’attività per gli alti costi conseguenti.

Un cambio di mentalità
Ma come cambiare la mentalità degli imprenditori e fargli capire che ci sono più vantaggi che svantaggi nell’approcciare il tema della prevenzione?
Il percorso sembra molto in salita, soprattutto perché i costi legati alla sicurezza sono percepiti come elevati. La legge richiede infatti una serie di interventi molto onerosi per un piccolo imprenditore: dal monitoraggio degli impianti fino alla prevenzione e protezione di incendi; dalla sostituzione di attrezzature non a norma alla formazione dei lavoratori; dalla sorveglianza sanitaria all’acquisto di dispositivi di protezione individuali; dall’acquisto di materiale per il primo soccorso fino alla redazione del documento di valutazione dei rischi.
Le normative incombono numerose e sono anche piuttosto costose. È quasi automatico cercare allora di allentare un po’ la corda.
Cionondimeno gli imprenditori possono individuare con successo alcune voci di costo che sfuggono e intraprendere un percorso di conoscenza volto a ridurre i rischi e aumentare la produttività.
Le resistenze delle aziende a investire in sicurezza sono infatti essere in parte dovute alla scarsa consapevolezza di questi vantaggi.

I costi della “non sicurezza”
Ma quali sono i costi reali della sicurezza sul lavoro? E come fare per cambiare la percezione degli imprenditori su questo tema? Secondo noi occorre ribaltare la forma della domanda per capire esattamente di che cosa stiamo parlando. Bisogna quindi chiedersi quali siano davvero gli oneri derivanti dalla mancanza di sicurezza.
Noi di geoJOB crediamo infatti che l’obiettivo di un imprenditore non debba essere solo orientato a ridurre i costi della sicurezza ma sia soprattutto volto a incrementare la produttività di uomini e attrezzature per ottenere un rendimento ottimizzato.
Ad esempio, i costi derivanti dal tempo perso dal lavoratore interessato dall’infortunio, o il tempo perso dagli altri lavoratori e dal caposquadra bloccati a seguito dell’infortunio, il costo delle attrezzature o dei materiali danneggiati, insieme al costo del lavoratore che ha beneficiato del sistema di assistenza sanitaria, o la sua minore efficienza lavorativa successiva all’infortunio, o i costi dovuti ad altre spese generali, sono tutti costi evitabili. Compito dei partner esterni dell’imprenditore è quello di metterlo di fronte alla probabilità statistica con la quale questi eventi possono accadere. Che c’è e va mantenuta sempre bassa.
Pensiamo quindi che l’imprenditore possa essere aiutato a stimare con accuratezza i costi derivanti dalla mancata sicurezza e raggiungere così una maggiore consapevolezza rispetto all’importanza della prevenzione.

Il Contratto di Apprendistato per gli “over 29”

Il Contratto di Apprendistato per gli “over 29”

L’apprendistato per i lavoratori con età superiore ai 29 anni è ormai una realtà consolidata. Vediamo di che cosa si tratta e perché questa forma contrattuale è così conveniente per le aziende.

Non tutti sanno che esiste un contratto di apprendistato senza limiti d’età che permette alle aziende di impiegare lavoratori con ottime esperienze lavorative alle spalle. Si tratta di un’interessante opportunità di riqualificazione, sia per i lavoratori che per le imprese, che prende le mosse dal classico contratto di apprendistato nella forma professionalizzante per gli under 28 ma che da qualche anno è valido anche per tutti gli over 29.
Si tratta quindi di una grande opportunità di reinserimento nel mondo del lavoro per quei lavoratori con qualche anno in più che percepiscono indennità di disoccupazione a sostegno del reddito come la NASpI, o l’indennità speciale di disoccupazione edile. Oppure che sono in mobilità o hanno stipulato il relativo patto di servizio personalizzato con i centri per l’impiego.
Il riferimento normativo è nell’art. 47, comma 4, D.Lgs. n. 81/2015 che introduce una particolare deroga alle norme generali per il caso in cui un datore di lavoro voglia assumere un soggetto iscritto alle liste di mobilità o che stia percependo un trattamento di disoccupazione. Di fatto, questa normativa, inserita all’interno del Jobs Act, permette soprattutto ai datori di lavoro di ottenere importanti sgravi contributivi e fiscali a fronte di un contratto di lavoro che prevede, al pari di quanto avviene per i giovani apprendisti, un periodo di formazione obbligatorio al termine del quale vi è la conferma della trasformazione dell’apprendistato nel contratto a tempo indeterminato.
Una forma di qualificazione o riqualificazione professionale per coloro che percepiscono un’indennità di disoccupazione che è da qualche anno legata a un apprendistato senza limiti d’età e che rappresenta dunque un formidabile strumento per le aziende intenzionate a rintracciare sul mercato del lavoro quei soggetti con ottime esperienze di cantiere. Maestranze capaci che hanno solo bisogno di essere formate e aggiornate alle nuove esigenze tecniche, e che consentono alle imprese di ottenere anche notevoli benefici in abito contributivo. Insomma, due piccioni con una fava.
Inoltre la “formazione di base” su competenze trasversali non è obbligatoria per gli over 29 che percepiscono indennità di disoccupazione a sostegno del reddito, e che hanno quindi già avuto esperienze lavorative. Il legislatore ha presunto infatti che questi lavoratori siano già in possesso di tali abilità.

L’inquadramento normativo

Il contratto di apprendistato è a tutti gli effetti un contratto di lavoro a tempo indeterminato in cui il datore di lavoro corrisponde all’apprendista una retribuzione adeguata alla prestazione di lavoro, ma in forma ridotta rispetto al regolare inquadramento contrattuale. Questa riduzione è motivata sia dalla inesperienza del cosiddetto “apprendista” sia dell’obbligo della società ad effettuare una formazione professionalizzante al “ragazzo” assunto.
Oltre ad una retribuzione regolamentata in tal modo, viene erogata anche una formazione specifica volta a far acquisire al lavoratore la maggiore competenza professionale desiderata. In sostanza, il datore di lavoro è tenuto a erogare, sia in azienda sia con training esterno, la formazione prevista dal contratto collettivo nazionale di lavoro di riferimento. A tal fine è previsto l’obbligo, per tutta la durata dell’apprendistato, della presenza di un tutor in possesso dei requisiti previsti dalla normativa.
L’istituto del contratto di apprendistato, varato nel 2011 per agevolare l’inserimento nel mondo del lavoro di giovani fino ai 28 anni, dal 2016 prevede anche l’assunzione di lavoratori “over 29” che siano beneficiari di mobilità o di trattamenti di disoccupazione, ma senza più limiti di età. L’obiettivo è sempre lo stesso: la qualificazione o riqualificazione professionale per un miglior reinserimento nel mondo del lavoro.
Per evitare gli abusi del contratto di apprendistato e soprattutto lo sfruttamento improprio delle agevolazioni di tipo retributivo e contributivo da parte delle aziende, la normativa prevede per i datori di lavoro alcuni limiti in termini di numero di assunzioni possibili. Si tratta di soglie calcolate sulla base dell’organico complessivo dell’azienda e delle assunzioni già effettuate con lo stesso contratto. Ad esempio per le imprese con più di 50 dipendenti, l’inserimento di nuove risorse con contratto di apprendistato professionalizzante può avvenire solo se almeno il 20% degli apprendisti assunti nei 36 mesi precedenti è stato confermato al termine dell’apprendistato.

Durata del contratto e retribuzione

Il contratto di apprendistato professionalizzante prevede una durata minima di 6 mesi e non può superare i 3 anni, anche se per alcune professioni artigianali si può arrivare fino a 5 anni.
Nel redigere il contratto occorre specificare con cura il profilo formativo del lavoratore e la qualifica che sarà acquisita al termine del periodo di apprendistato.
Riguardo alle categorie retributive, l’“apprendista” ha diritto ad avere un inquadramento con non oltre due livelli inferiori rispetto alla categoria di un lavoratore che svolge la medesima mansione. Il dipendente assunto con il contratto di apprendistato riceverà dunque uno stipendio che aumenterà gradualmente col passare del tempo, sempre in base all’anzianità di servizio, fino a raggiungere il 100% della retribuzione prevista per il proprio livello.
Per le aziende che stipulano questi contratti è bene rammentare che, anche se l’apprendistato è per legge un contratto a tempo indeterminato, è prevista una scadenza precisa del periodo formativo al termine del quale entrambe le parti possono interrompere in piena libertà il rapporto di lavoro.
Il periodo di preavviso per le dimissioni o per la non riconferma decorre quindi dalla data in cui termina il periodo di apprendistato.
Da entrambe le parti non occorre portare alcuna motivazione a sostegno della decisione di interrompere il rapporto. Si interrompe e basta. Il recesso al termine del periodo di apprendistato è uno di quei casi in cui né il datore di lavoro né il dipendente devono dimostrare la legittimità di una giusta causa o di un giustificato motivo. L’unico obbligo è per l’azienda, che deve comunicare, attraverso il relativo sistema informatico, entro 5 giorni la cessazione del rapporto al Centro per l’Impiego