GeoJOB al GIS EXPO 2019 di Piacenza

GeoJOB al GIS EXPO 2019 di Piacenza

Dal 3 al 5 ottobre si svolgeranno a Piacenza le Giornate Italiane del Sollevamento. Al grande appuntamento fieristico, che coinvolge da vicino il mondo delle costruzioni, noi ci saremo.

Ai primi di ottobre il quartiere fieristico di Piacenza ospiterà il più grande evento europeo dedicato al comparto del sollevamento, della logistica e dei trasporti pesanti. Si tratta di una fiera unica nel suo genere che richiama ogni due anni i più importanti operatori della movimentazione di merci e macchinari, con presenze sempre più qualificate e di respiro internazionale. 

Quest’anno le previsioni rispetto alla partecipazione dovrebbero superare ampiamente le presenze della precedente edizione, che nel 2017aveva totalizzato ben 308 espositori diretti e 9.066 visitatori qualificati. Numeri che crescono di biennio in biennio e che confermano l’interesse per una manifestazione che ha saputo ritagliarsi una nicchia di eccellenza all’interno del panorama fieristico di settore.

Un’edizione sempre più ricca

Ancora più ampia e diversificata, l’offerta espositiva di GIS EXPO 2019 si è evoluta negli anni partendo dai tradizionali settori del sollevamento e dei trasporti eccezionali, fino a inglobare i segmenti della movimentazione industriale, portuale e aeroportuale e della logistica meccanizzata, con importanti collegamenti trasversali tra i differenti ambiti produttivi. 

E vista l’elevata specializzazione della fiera, ormai giunta alla settima edizione, la partecipazione di geoJOB al GIS era davvero doverosa, dal momento che quelli del sollevamento e della logistica sono settori che vanno a toccare i gangli dell’attività manifatturiera del nostro Paese, e in cui è sempre più forte la richiesta di operatori qualificati. 

Gruisti, tecnici alla guida di piattaforme di lavoro elevabili e altri addetti agli interventi in quota o nella gestione tecnica e logistica dei cantieri e delle aree di intervento, sono infatti risorse irrinunciabili per tutte le aziende della filiera, che possono trovare in geoJOB Recruitment e nel suo modello di recruitment geolocalizzato, un’importante partner di successo. 

Il ruolo della formazione e della selezione

geoJOB sarà presente al GIS EXPO con il suo partner, Romeo Safety Italia, società di servizi e consulenza nei settori della sicurezza sul lavoro, nonché Soggetto Accreditato dalla Regione Lombardia per la formazione continua e i servizi di formazione professionale in materia di sicurezza, igiene, acustica e tutela dell’ambiente. Entrambe le società credono che la selezione, la formazione e la sicurezza siano requisiti indispensabili per la tenuta e l’integrità delle aziende, oggi alle prese con importanti sfide e con un crescente bisogno di manodopera specializzata. 

Sempre più evidente è infatti la notevole complementarità tra le innovazioni tecnologiche nell’ambito del sollevamento e della movimentazione industriale, da un lato, e la formazione, l’addestramento e la messa in sicurezza degli utilizzatori di macchinari e attrezzature, dall’altro.

Spesso infatti atteggiamenti scorretti dovuti a disattenzione, alla noncuranza delle regole o semplicemente alla fretta, possono portare a una gestione sbagliata delle aree di movimentazione dei materiali e delle merci, fino a determinare situazioni di grave pericolo. Operazioni apparentemente banali come ad esempio lo stoccaggio dei colli o la formazione delle pile possono nascondere insidie che, in un attimo, sono capaci di generare gravi infortuni sul lavoro e compromettere l’esistenza stessa di un’azienda. 

Il tema della formazione si accompagna quindi strettamente alla complessa attività di selezione del personale, attraverso la quale è possibile reclutare con successo personale già “attrezzato”, sia sul piano delle abilità tecnico-specialistiche, sia sul versante dell’addestramento circa le misure di prevenzione e sicurezza. 

Arrivederci al GIS

La presenza al GIS EXPO 2019 rappresenta per noi di geoJOB un attestato di vicinanza al mondo del lavoro, laddove questo si manifesta in tutta la sua operatività e laboriosità. Soprattutto su luoghi complessi, come i cantieri, in cui l’uso di macchinari e tecnologie è entrato a far parte ormai della quotidianità. 

Nel nostro piccolo, cercheremo di fornire un contribuire sostanziale alla crescita e alla maturazione di un settore che ha fortemente bisogno di un’iniezione di fiducia e di forte spinta verso l’innovazione. E noi faremo la nostra parte. 

Venite quindi a trovarci. Il GIS EXPO si svolgerà presso gli spazi espositivi di Piacenza Expo, su un’area complessiva di 30.000 mq e a soli 500 metri dall’uscita autostradale di Piacenza Sud sulla A1 (Milano-Bologna) e sulla A21 (Torino-Brescia). 

Sicurezza: da costo a opportunità

Sicurezza: da costo a opportunità

È sicuramente importante individuare le voci di costo della sicurezza e della prevenzione. Non bisogna però sottovalutare i pregi di alcune pratiche virtuose come l’apprendimento “on the job”. Ecco il parere di un esperto del settore.

Per accedere al cantiere in piena sicurezza, i lavoratori devono essere sottoposti, a spese dell’azienda, a corsi di formazione, con un costo a persona che a volte è anche molto importante. Ciò rappresenta uno dei fattori di resistenza maggiori all’adozione di norme e pratiche di sicurezza e crea grossissimi alibi per una parte degli imprenditori, che cercano di sottrarsi agli obblighi di legge in molti modi, anche illeciti.

Come uscire dall’impasse e consentire alle imprese di risparmiare senza mettere a rischio l’incolumità dei lavoratori? Lo domandiamo a Damiano Romeo, amministratore unico di Romeo Safety Italia, società di servizi e consulenza nei settori della sicurezza sul lavoro. 

Perché la formazione in tema di sicurezza è diventato un vincolo così gravoso per le aziende?

«Innanzitutto è bene sottolineare che non è il costo dei corsi che incide sulla mancanza di formazione, quanto piuttosto il peso della mancata produzione. Soprattutto nel settore edile e impiantistico, dove ci sono moltissimi appalti e lo scenario è caratterizzato da date di consegna molto stringenti, le ore di assenza del personale impegnato nei corsi di formazione rappresentano l’elemento che più di altri mette sotto stress le imprese. La pubblicistica giuridica riporta infatti di centinaia e centinaia di casi di attestati di formazione falsi proprio perché le aziende sono in difficoltà nel concedersi tutte quelle ore necessarie per la formazione. Per le imprese, soprattutto quelle piccole, quell’assenza di risorse sul luogo di lavoro rappresenta sempre un mancato guadagno!». 

Sta dicendo che gli imprenditori sono un po’ in difficoltà. Ma allora come si risolve questo problema, solo con i controlli?

«A fronte di committenti sempre più esigenti, scadenze puntuali e ravvicinate, credo che bisognerebbe passare alla formazione “on the job”, dove il docente accompagna i lavoratori mentre producono, senza distoglierli dal loro impegno quotidiano. E quindi senza sospendere la produzione. 

È vero che c’è comunque un rallentamento della produzione, ma l’incidenza è davvero molto bassa, intorno al 10% per dipendente. I lavoratori avrebbero un grande giovamento e questo, oltretutto, accelererebbe anche i processi di apprendimento perché è molto forte il coinvolgimento dei partecipanti, che si sentono più responsabilizzati. 

Per fare formazione on the job c’è però bisogno di formatori molto capaci, non di semplici esperti d’aula. Questo è l’unico sistema che permetterebbe un notevole risparmio per le aziende e riuscirebbe a mettere d’accordo tutti».

E la normativa lo permette?

«Non è espressamente previsto, ma non è vietato. In alcuni ambienti di lavoro già si fanno corsi on the job con grande successo. E questa è una lacuna della normativa vigente, che dovrebbe affrontare meglio questa fattispecie entrando nel merito della formazione svolta attivamente durante il normale lavoro. Nella norma si parla invece genericamente di “addestramento”, che non è certamente un termine chiaro e dirimente. E in questo senso meriterebbe un approfondimento maggiore».

Crede che una selezione del personale ben fatta sia utile per arginare questa criticità?

«Assolutamente. Chi gestisce la selezione in questo settore deve conoscere e comprendere il settore, non solo da un punto di vista tecnico ma anche culturale.  Questo permette alle aziende di avere un supporto reale per inserire all’interno del proprio organico operatori qualificati e che possono contribuire a far crescere tutta la struttura, contribuendo a promuovere una cultura sana e basata sulla crescita e la formazione continua».

Il datore di lavoro spesso porta due cappelli. Oltre a fare l’imprenditore, svolge spesso anche la funzione di RSPP. E in questo doppio ruolo il datore di lavoro non si spende completamente nella prevenzione limitandosi a esercitare un’attività di controllo e di richiamo laddove è proprio necessario. Come si può risolvere questa problematica? 

«È vero, in questo doppio ruolo il concetto di sicurezza viene un po’ a mancare. Occorre però dire che questo fenomeno avviene soltanto nelle piccole aziende, mentre nelle medie e grandi aziende non è possibile per un motivo molto semplice. Per quanto riguarda il servizio di prevenzione, funzione di RSPP può infatti essere esercitata anche dal datore di lavoro solo se si tratta di aziende con un massimo di 30 dipendenti. Per quanto riguarda invece l’antincendio la soglia è quella di 5 dipendenti. Quindi un impresario che ha 3 dipendenti può fare l’addetto al pronto soccorso antincendio senza problemi. 

Ricordiamoci quindi che il mondo dell’edilizia è fatto per lo più da microimprese e che questa norma è stata voluta proprio per non mortificare il mondo della microimpresa, che altrimenti non sarebbe stata competitiva. Insomma, si è trattato di una soluzione di compromesso che ha permesso alle microimprese di contenere i costi, pena l’eliminazione drastica dal mercato. 

È sicuramente un’arma a doppio taglio, perché non c’è una terzietà nella decisione, e questo è un limite molto grave, perché riduce senz’altro le potenzialità delle normative in tema di sicurezza e prevenzione».

E negli altri Paesi che succede?

«Alcuni problemi sono abbastanza comuni a tutti i mercati, e molto dipende da come è frammentato il settore. Qui in Italia, soprattutto nell’edilizia, abbiamo una catena infinita di appalti e subappalti, e il numero delle imprese molto piccole è diventato elevatissimo. 

Una volta c’erano aziende che facevano un po’ tutto. Oggi invece la richiesta di maggior specializzazione ha reso le microimprese più caratterizzate rispetto a un tempo. E quindi accade che le esigenze della produzione, specialmente nei cantieri, impongano scadenze molto strette per l’intervento di singole squadre di lavoratori specializzati. Con tempi compartimentati per svolgere il proprio lavoro, e quindi con le conseguenze antipatiche e al limite della normativa a cui abbiamo accennato poco fa». 

Tutti i pregi dell’alternanza scuola lavoro

Tutti i pregi dell’alternanza scuola lavoro

L’alternanza scuola lavoro è una misura sperimentata da tempo in molti Paesi europei per facilitare l’inserimento lavorativo dei più giovani e permettere un miglior allineamento tra domanda e offerta di lavoro. Vediamo che cos’è e come si articola nelle sue diverse formule.

Lo scopo principale dell’alternanza scuola lavoro è quello di costruire nel tempo un’efficace connessione tra il fabbisogno delle aziende e la formazione di figure professionali immediatamente disponibili sul mercato del lavoro. In Italia è diventata obbligatoria con la riforma della “Buona Scuola” attraverso la legge 107/2015, ma era già presente a macchia di leopardo già dal 2003.
Si tratta, in sostanza, di un ciclo di formazione teorica in aula accoppiato a un periodo di esperienza lavorativa diretta presso un’azienda, con l’obiettivo di avvicinare tutti gli studenti dell’ultimo triennio delle superiori, indipendentemente dalla natura dell’istituto scolastico, a un mondo del lavoro che è diventato molto più complesso rispetto al passato. E che è ormai diventato difficilmente accessibile attraverso gli ordinari strumenti formativi in aula.
Il metodo dell’alternanza è molto virtuoso perché permette di avvicinare gli studenti a un’esperienza occupazionale reale che consentirà loro di migliorare, affinare o confermare il proprio orientamento professionale o la scelta della futura carriera lavorativa.
Ma oltre a favorire una buona transizione tra scuola e mondo del lavoro, l’alternanza scuola lavoro, detta anche “sistema duale”, rappresenta anche un utile strumento per ridurre la dispersione scolastica, soprattutto in quelle aree del Paese in cui essa è più drammatica.

Sistema duale e apprendistato: la crescita del sistema
L’alternanza ha una durata diversa a seconda del tipo di percorso scolastico: per i licei è più breve rispetto agli istituti tecnici o a quelli professionali, dal momento che questi ultimi sono più orientati all’entrata diretta nel mondo del lavoro.
Per l’anno scolastico 2019-2020 il numero minino di ore di alternanza scuola lavoro da svolgere sarà infatti di 210 per gli istituti professionali, 150 per gli istituti tecnici e 90 per i licei. Stiamo parlando di ore obbligatorie. Inoltre a partire proprio dal prossimo anno scolastico il completamento delle ore di alternanza diverrà un requisito fondamentale per poter essere ammessi all’esame di maturità.
Ma le caratteristiche virtuose di questo istituto non finiscono qui. L’alternanza scuola lavoro si inserisce infatti all’interno di una prospettiva normativa più ampia e articolata che comprende anche il cosiddetto “contratto di apprendistato”.
Uno degli obiettivi principali del sistema duale è quello di sviluppare un impianto educativo che favorisca l’integrazione dell’apprendimento in aula con quello che avverrà in azienda. Rendere perfettamente complementare l’insegnamento formale con quello on the job è infatti giudicato un requisito valoriale importantissimo, poiché permette l’acquisizione di competenze subito spendibili nel mondo del lavoro. Oltre a colmare il gap esistente tra formazione teorica e formazione pratica, che oggi è sempre più forte a causa dell’evoluzione rapidissima delle tecnologie e dei saperi.
In questa prospettiva diventa quindi più facile l’inserimento nel mondo del lavoro dello studente o dell’apprendista che vengono formati soltanto sulla base delle reali esigenze delle aziende.

Un apprendistato di valore
Quello dell’apprendistato è un modello complesso, composto di più formule. È una delle modalità di attuazione del Decreto Legislativo 81 del 2015, che disciplina i contratti di lavoro e le sue mansioni, e che fa parte del più ampio sistema di provvedimenti legislativi varati tra il 2014 e il 2015 che va sotto il nome di Jobs Act.
Formalmente l’apprendistato è una forma di contratto di lavoro a tempo indeterminato che consente di apprendere una professione all’interno di un’azienda e al tempo stesso frequentare una scuola superiore o un’università per acquisire un titolo di studio.
Ci sono tre livelli di apprendistato: il primo è l’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, per il diploma di istruzione secondaria superiore o per il certificato di specializzazione tecnica superiore, ed è destinato a giovani dai 15 anni ai 25 anni.
Il secondo livello è l’apprendistato professionalizzante, volto cioè al conseguimento di una qualificazione professionale ai fini contrattuali, ed è destinato ai giovani di età compresa tra i 18 anni e i 29 anni.
Il terzo livello è l’apprendistato di alta formazione e di ricerca, sempre destinato ai giovani dai 18 anni ai 29 anni ma che intendono acquisire un titolo di studio universitario, relativo a un’attività di ricerca o un praticantato in mestieri regolamentati da un ordine professionale.
Come abbiamo visto in un altro articolo, il secondo livello di apprendistato (quello professionalizzante) prevede anche l’assunzione di lavoratori “over 29” che siano beneficiari di mobilità o di trattamenti di disoccupazione, ma senza più limiti di età. L’obiettivo è sempre lo stesso: la qualificazione o riqualificazione professionale per un miglior reinserimento nel mondo del lavoro.

Durata dell’apprendistato
Il decreto interministeriale pubblicato il 21 dicembre 2015 ha definito gli standard dei percorsi formativi e i requisiti minimi dei contratti di apprendistato. A cominciare dalla loro durata e con particolare riguardo a quelli di primo livello che sono rivolti ai giovani di età compresa tra i 15 e i 25 anni.
Naturalmente la durata del contratto di apprendistato è commisurata al titolo che occorre conseguire. I titoli sono di quattro tipi: la “qualifica professionale”, che ha durata di 3 anni; il “diploma professionale”, che ha durata 4 anni; il “diploma d’istruzione secondaria superiore” che è di 2 anni; e il “certificato di specializzazione tecnica superiore” che ha durata un anno. Viene prescritta anche la durata minima di un contratto, che non può essere inferiore ai sei mesi. Un periodo di alternanza più breve non consentirebbe infatti di svolgere un periodo di formazione sufficiente. Anche se ci sono alcune eccezioni, come ad esempio è il caso degli apprendisti stagionali, per i quali e possibile frammentare il contratto in tanti microrapporti di breve durata lungo un arco di tempo piuttosto ampio, come previsto da alcuni contratti collettivi nazionali.

I requisiti dell’azienda
L’azienda che intende assumere un giovane in alternanza scuola lavoro deve essere in possesso di alcuni requisiti minimi. Innanzitutto deve avere la disponibilità di strumenti tecnici idonei allo svolgimento della formazione oltre a fornire ambienti perfettamente in regola con le norme di sicurezza. Ma soprattutto deve contattare un’istituzione o un ente formativo accreditato per concordare un percorso che garantisca allo studente l’acquisizione di competenze che difficilmente si apprenderebbero sui libri di scuola. Infine deve indicare una figura competente, il tutor, in grado di formare l’apprendista e guidarlo costantemente attraverso il suo percorso personalizzato.
E sulla figura del tutor e sulla sua specifica preparazione, a cui noi di geoJOB teniamo in modo particolare, spenderemo due parole in un prossimo articolo.

Orario di lavoro: arriva l’obbligo UE

Orario di lavoro: arriva l’obbligo UE

La Corte di Giustizia UE ha stabilito che gli Stati membri devono introdurre l’obbligo per i datori di lavoro di istituire un sistema che consenta la misurazione della durata dell’orario di lavoro giornaliero dei dipendenti, oltre che degli straordinari. Ecco come si è giunti a questa decisione.

La questione della misurazione precisa dell’orario è da sempre un tema tormentato e ricco di sentenze. E non sempre gli esiti processuali sono favorevoli al lavoratore. Rispetto al fatto che risulti difficile calcolare la quantità effettiva di ore lavorate ci sono infatti molte variabili da considerare. E molto dipende dai sistemi impiegati per misurare il tempo lavorativo.
Se si tratta di strumenti elettronici, le cose sono infatti chiare e semplici (a parte le frodi), ma se si tratta di strumenti cartacei o addirittura di semplici accordi orali, la faccenda si fa assai complicata. Ci ha pensato una controversia collettiva avvenuta in Spagna a risolvere una volta per tutte la non semplice questione della registrazione precisa dell’orario di lavoro. Ma per renderla chiara e definitiva è dovuta intervenire addirittura la Corte Europea.

Che cosa è successo
I fatti sostanzialmente sono questi: in una vertenza tra il sindacato Federación de Servicios de Comisiones Obreras (Ccoo) e la Deutsche Bank locale, è stato richiesto il giudizio imparziale dell’Audiencia Nacional, cioè la Corte Centrale spagnola, affinché si esprimesse sull’obbligo di istituire un sistema di monitoraggio del monte ore dei dipendenti della banca.
A supporto della posizione della CCOO, sono intervenute altre quattro sigle sindacali spagnole: la Federación Estatal de Servicios de la Unión General de Trabajadores (FES-UGT), la Confederación General del Trabajo (CGT), la Confederación Solidaridad de Trabajadores Vascos (ELA) e la Confederación Intersindacal Galega (CIG). L’obiettivo della disputa era controllare non soltanto che il lavoro giornaliero svolto dai lavoratori avvenisse nel rispetto degli orari stabiliti, ma anche verificare che le ore di straordinario fossero state trasmesse ai rappresentanti sindacali, come previsto dalla direttiva europea sull’orario di lavoro.
Ma poiché Deutsche Bank sosteneva che dalla giurisprudenza spagnola non emergeva con chiarezza alcun obbligo in tal senso, la questione è così arrivata sui tavoli della Corte di giustizia europea. Che si è espressa in modo ampio ed esaustivo, fornendo una valutazione che servirà da giurisprudenza per dirimere future questioni di simile indirizzo.

La direttiva 2003/88/CE
Il ragionamento parte da normative CE già conosciute e condivise. Per assicurare la piena tutela della salute e della sicurezza dei dipendenti sui luoghi di lavoro (obiettivi perseguiti dalla direttiva 2003/88/CE attraverso, tra l’altro, la fissazione di limiti massimi ai tempi di lavoro), è infatti necessario che gli Stati membri prevedano l’obbligo per il datore di lavoro di introdurre strumenti di misurazione della reale durata della giornata e della settimana lavorativa. In base a questo indirizzo generale, l’Avvocato Generale CGUE (Corte di Giustizia dell’Unione Europea) ha quindi valutato che, in carenza di una legislazione spagnola chiara e univoca sulla registrazione dell’orario di lavoro, occorresse definire alcuni paletti normativi da cui far discendere a cascata una serie di prescrizioni destinate a migliorare la tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro, ai sensi della direttiva 2003/88/CE in tema di “Riposo giornaliero”, “Riposo settimanale” e “Durata massima della settimana lavorativa”.
Tali diritti si collegano al rispetto della dignità umana tutelata in modo più ampio nel titolo I della Carta dei diritti fondamentali che, dopo avere riconosciuto, al paragrafo 1, che «ogni lavoratore ha diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose», dispone, al paragrafo 2, che «ogni lavoratore ha diritto a una limitazione della durata massima del lavoro, a periodi di riposo giornalieri e settimanali e a ferie retribuite».
È in tale quadro sistematico di norme già condivise che si inserisce la decisione dell’Avvocato Generale CGUE di regolamentare al meglio la registrazione precisa dell’orario sui luoghi di lavoro e permettere una migliore applicazione delle regole enunciate dalla direttiva 2003/88, affinché il lavoratore benefici dei diritti garantiti dalla direttiva stessa.

L’onere della prova non è del lavoratore
Secondo l’Avvocato Generale non è sufficiente affermare, come ha fatto il Regno di Spagna durante l’udienza, che il lavoratore potrebbe far valere i suoi diritti in giudizio contro il datore di lavoro. Senza un idoneo sistema di misurazione del normale orario, il lavoratore è infatti tenuto a un onere probatorio molto gravoso e di difficile efficacia proprio in assenza di quella prova che si vorrebbe negare.
Se è vero, infatti, che il lavoratore può ricorrere ad altri mezzi per dimostrare in giudizio l’inadempimento del datore di lavoro, come ad esempio testimoni o altri indizi quali e-mail o messaggi ricevuti o inviati, è altrettanto vero che la mancanza di elementi oggettivi sulla durata della propria giornata lavorativa lo priva di una prima traccia probatoria essenziale.
Inoltre l’efficacia in giudizio della prova testimoniale sconta la debolezza del lavoratore nel rapporto di lavoro e dunque la possibile reticenza di colleghi a testimoniare contro il datore di lavoro per timore di ritorsioni. A questo si aggiunge il fatto che l’oggettiva situazione di debolezza del lavoratore all’interno del rapporto di lavoro può di fatto dissuaderlo dal far valere i propri diritti.

Fare ricorso alle tecnologie è semplice
L’assenza di un meccanismo di rilevazione dell’orario di lavoro indebolisce quindi molto l’effettività dei diritti sanciti dalla direttiva 2003/88 verso i lavoratori, che sono, in sostanza, rimessi all’arbitrio del datore di lavoro.
Da qui discende l’obbligo degli Stati membri di adottare le «misure necessarie» alla trasposizione negli ordinamenti nazionali delle regole necessarie alla realizzazione dei diritti fondamentali riconosciuti dalla direttiva 2003/88, la quale costituisce un’attuazione dell’articolo 31 della Carta. La rilevazione dell’orario di lavoro può essere un semplice registro cartaceo, elettronico o uno strumento diverso, purché idoneo allo scopo.
Il compito di tutti i datori di lavoro è allora quello di attrezzarsi al più presto per garantire un’oggettiva misurazione delle ore effettivamente lavorate dai propri dipendenti. Gli strumenti per farlo sono molteplici e, come sottolinea l’Avvocato Generale, la tecnologia attuale consente i più svariati sistemi di rilevazione dell’orario di lavoro: dai registri cartacei alle applicazioni informatiche, fino ai badge elettronici.

Strumenti scelti insieme alle parti sociali
Si tratta inoltre di sistemi che potrebbero anche essere differenziati a seconda delle caratteristiche e delle esigenze delle singole imprese. E i costi per renderli efficienti sono oggi piuttosto bassi e alla portata di tutte le tasche.
L’importante è che la scelta di questi strumenti non avvenga in maniera discrezionale, autoritaria e dall’alto ma, al contrario, sia condivisa e accettata da tutte le parti sociali, vale a dire i soggetti protagonisti degli accordi interconfederali, quali le associazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori e, a seconda della tipologia di contratto collettivo, anche il Governo o gli Enti locali.
È questa una precauzione molto importante da prendere, specialmente in luoghi di lavoro come i cantieri edili temporanei o mobili, dove non c’è la possibilità di “timbrare il cartellino” e la scelta degli strumenti più idonei, soprattutto quelli elettronici, deve essere ampiamente condivisa, pena provvedimenti giudiziali e stragiudiziali molto onerosi per un datore di lavoro.
Occorre infine sottolineare che le decisioni comunitarie si limitano a definire soltanto le esigenze fondamentali e gli obiettivi di principio di una specifica materia, e che quindi occorrerà un certo arco di tempo affinché questi indirizzi vengano “armonizzati” nelle singole normative nazionali degli Stati membri. Un processo e un iter normativo che può richiedere anche diversi mesi o anni. Nel frattempo, però, il pronunciamento dell’Avvocato Generale CGUE fa già giurisprudenza!